Una piacevole, costante intermittenza / di Sara Di Bianco.

Arrampico da quando avevo 19 anni. Ne ho 36. Ho arrampicato purtroppo a intermittenza nella mia vita. Quando iniziai, dicevo che non avrei smesso mai. E poi succedono cose che ti portano ad allontanarti da ciò che ami e che ti fa stare bene. A volte c’è anche una componente di tua scelta personale, altre volte no. Ho avuto periodi in cui era uno scopo di vita, in cui stavo diventando brava e pensavo anche di voler diventare istruttrice; periodi in cui era una parentesi felice in mezzo a tante altre cose; periodi in cui mi forzavo a farlo perché avevo il ricordo di quando mi piaceva e mi faceva stare bene, ma in quel momento magari invece proprio non mi aiutava a stare meglio, anzi il contrario; periodi in cui era semplicemente il piacere della condivisione con gli amici, come andare al pub, solo che noi andavamo in montagna.
Ho conosciuto persone con cui non sarei mai potuta entrare in connessione, se non fosse stato per l’arrampicata. E ho rafforzato rapporti con persone che conoscevo già da prima, e che hanno poi anche loro iniziato ad arrampicare. Ho escluso persone, qualche volta, con cui arrampicando ho capito che non c’era proprio feeling, né in verticale né in orizzontale.
Non ho mai avuto la fortuna di avere un compagno/a di cordata fisso/a. Tanti compagni di cordata intermittenti. Con qualcuno ho scalato assai di più, perché ci si trovava bene e la vita lo permetteva. E c’era la volontà vera da parte di entrambi. Con qualcuno meno.
Ho desiderato un compagno di cordata e di vita. Cose rare. Non è mai successo e non lo desidero più. Ho desiderato che i compagni di vita che ho avuto mi seguissero, anche solo ogni tanto, in falesia, come io seguivo loro nelle loro vite. Anche questo non è mai successo. Non sono brava a forzare. Se vuoi farne parte sono felice. Se non vuoi farne parte ci resto male. Ci provo un altro po’ e rinuncio, e piano piano può essere che succede che mi allontano. Come con le vie. Non sono mai stata brava a lavorarmele. Mi piace quando le libero a vista. Col piacere della scoperta e dell’ignoto. Mi manca quel “lavorato”, quello stare lì a studiarsele e a capire come risolvere il problema.
E su questo negli ultimi anni ci sto lavorando un po’, scusate il gioco di parole. Sto lavorando sul lavorato. Sulle vie. Nelle relazioni. Nel lavoro. Ma non sempre funziona.

Iniziai a Bologna con un corso FASI presso la palestra del Cusb (centro universitario sportivo di Bologna).
La prima falesia fu Badolo, un sabbione di arenaria pura fluviale, che se la grattavi si sgretolava. Era vicinissima a Bologna, dove abitavo, e ci andavo spesso e volentieri. Ci potevo arrivare anche in bici, oppure in pullman, non avendo né patente né macchina, e con una piccola camminata a piedi, staccando frutta dagli alberi lungo la strada!
Poi venne Bismantova, ancora arenaria, di cui mi innamorai e porto un ricordo meraviglioso! E poi Ceredo, il mio primo calcare, una delle falesie più belle del Veneto, una falesia sul lago di Garda e un paio di falesie in Dolomiti, di cui ho ricordi misti, Ferentillo, andando verso sud, e subito, dopo sei mesi dal corso, me ne andai a Ceüse, in Francia, ancora calcare, il paradiso dell’arrampicata!!! Il sogno di tanti arrampicatori. Andai col mio istruttore, Denis Bedinelli (di cui ho purtroppo completamente perso le tracce) e con Fabione, il suo migliore amico, e montai il mio primo 6a in assoluto! Lì “assaggiammo” anche un po’ le falesie di Orpierre e Claret, carine, non c’è che dire, ma niente in confronto a Ceüse, gigantesca fascia calcarea considerata una delle più belle falesie al mondo!

Poi per varie vicissitudini poi, proprio poco dopo Ceüse, smisi quasi all’improvviso, ma ci lasciai un pezzettino di cuore sulle pareti. Il pensiero ci ritornava spesso. Ci riprovai con un paio di compagni di corso di geologia che non avevano mai scalato, ma facemmo un sacco di cose stupide, che se ci penso ora mi metto le mani nei capelli. Loro completamente inesperti, e io comunque agli inizi e ferma da tanto. Fu bello però.

E appena tornata a Caserta, qualche anno dopo, subito cercai palestre nelle vicinanze per ricominciare. Allora non ce n’erano molte e trovai soltanto quella di Aversa, il Centro ginnico PiElle, dove conobbi Antonio Lampitella, per me il mio secondo maestro. Inizialmente andavo solo in palestra perché nel weekend non potevo mai. Un annetto così e poi ripresi ad andare per falesie. Dal Tifata alle falesie del basso Lazio, a quelle della Costiera. Un mondo completamente diverso da quello dell’Appennino centro-settentrionale. Qui c’era il mare, sempre, come presenza costante. C’era il sole d’inverno e potevo scalare in canottiera anche a febbraio, mai visto su. E d’estate si andava sempre a caccia d’ombra, che al sole si squagliava. Altra sensazione mai provata su. E poi c’era il calcare, su cui quando vivevo a Bologna avevo già messo mano varie volte, ma dovevo viaggiare tanto per trovarlo, da lì, per allontanarmi dalle arenarie e andare in cerca di calcare. Adesso invece era a portata di mano sempre, in ogni falesia, bello e compatto.

E poi ho visto tante falesie del Molise, Orsomarso e Frascineto in Calabria, Pietra del Toro in Basilicata, San Vito lo Capo e tutto le gole del Siracusano in Sicilia, la spettacolare, infinita, Val Di Mello, con i suoi boulder e il signor Sasso Remenno, Chamonix, con la scuola Franco Alletto. Ho scoperto i raduni d’arrampicata, alcuni che chiamavano gente da tutto il mondo (il San Vito Lo Capo Climbing Festival e il Melloblocco), i goliardici e divertentissimi Street Boulder, le gare d’arrampicata nei centri storici di pesini e vecchi borghi antichi.
Posso dire di aver girato parecchio grazie all’arrampicata e di aver visto posti, montagne e paesi dove, se non arrampichi, difficilmente capiti per caso.

E poi di nuovo ho dovuto smettere. E di nuovo ho ricominciato. E di nuovo ho rismesso. E di nuovo ho ricominciato. Questa intermittenza ovviamente non fa bene all’arrampicata, non fa bene in generale nella vita, ma purtroppo non sempre ho potuto permettermi di mantenere una certa costanza e quando molli la presa, poi ricominciare è ogni volta sempre un po’ più difficile. Ci vuole più determinazione e più perseveranza. Ci vuole più volontà. Ed è comunque sempre importante anche chi ti sta vicino. Gioca un ruolo fondamentale, qualcuno che ti incoraggia, piuttosto che qualcuno che ti dice che non serve a niente quello che fai ed è soltanto una perdita di tempo. Qualcuno che lo condivide con te, piuttosto che qualcuno a cui non frega niente e non c’è mai e ti costringe sempre a una scelta. Parlo ovviamente di persone che occupano ruoli importanti nella tua vita. Inevitabilmente, vuoi o non vuoi, ti influenzano.

Non ho mai raggiunto grandissimi risultati, proprio per questo “lascia e piglia”. Mi reputo nella media. Nei periodi in cui riesco ad arrampicare un po’ di più arrivo sempre a quel famigerato 6b sfiorato e a volte chiuso, 6a liberato, 6c provato da seconda, e solo una volta in vita mia ho liberato a vista un 6b+ e un 6c, a Frascineto, con Franco Piccaro, altro pezzo di vita e di cuore.

La vivo per questo in maniera abbastanza conflittuale. È un lascia e piglia con qualcosa che amo tanto. Ma che a volte prendo un po’ in antipatia. Un po’ come certi rapporti che hanno qualcosa di speciale ma non riescono mai a decollare. Vuoi per gli imprevisti della vita che a volte ti porta altrove, vuoi per i momenti sbagliati, vuoi per gli sbagli, a prescindere dai momenti, vuoi perché ci hai provato così tante volte e non è mai andata, che inizi a pensare che forse proprio non è il caso, e insomma, a volte la voglia ti passa anche un po’, quando gli ostacoli sono troppi, e non sempre riesci a crederci davvero, anche se ti prefiggi degli obiettivi, anche se nel profondo del tuo cuore non hai mai smesso di crederci. Ma tu sai e senti che il potenziale c’è, e allora rieccoti lì, ancora una volta, cocciuto e testardo, a riprovarci. Dopotutto a questo serve la testa dura, qualche volta. La “capa di chiuovo”. A sbatterla e risbatterla sempre contro quel muro finché non l’hai vinta tu, perché è così dura che si ammacca ma non si rompe. Dopotutto lo sai che si va avanti anche a suon di porte sbattute in faccia, e come i pappici, prima o poi sai che quella noce la puoi “spertusare” anche tu.

L'arrampicata insegna ad avere pazienza, insegna a ponderare bene le proprie scelte, a respirare, e a fare qualche passo indietro, talvolta, se necessario. Ad ascoltarsi, e a seguire l'istinto in ogni singolo istante. A capire quand’è il momento di “tirare” e di insistere, e quand’è il momento di prendersi una pausa. A volte bisogna anche un po’ metabolizzare. Ma insegna poi anche ad osare, a lanciarsi... Perché come dice Sepulveda: "Vola solo chi osa farlo"… e questo vale sempre, nell'arrampicata e nella vita. L'arrampicata è un'arte. "Per sviluppare la coscienza di sé", secondo la filosofia di Paolo Caruso. L'arte di conoscersi e agire al meglio. E anche un po’ l’arte dell’inutile, come sostiene qualcuno, e come d’altronde tutte le cose belle. Inutili. Così inutili, però, che ci aiutano a vivere meglio. Danno un sapore in più a tutto il resto.

Quando ci stai dietro funziona veramente tanto. Ma non la devi mollare. Che se la molli per una settimana, lei ti molla per due. Se la molli per un mese, lei ti molla per due. Gioca al raddoppio. E ci sa fare. Devi imparare a tenerle testa, se vuoi risultati e soddisfazione, e divertimento anche.

La montagna, in tutti i suoi aspetti, è anche un amplificatore di piaceri. Perciò è meraviglioso condividerla con chi l'ama veramente, e non solo a chiacchierare. Per amplificare anche il piacere di essere lì, insieme, in quel momento. Senza pensare al lavoro, ai soldi, all’affitto, alla casa, ai notai, agli avvocati, ai bugiardi, ai problemi tuoi e ai problemi degli altri, ai nemici sempre dietro l’angolo, ai pescecani.
Ma al solo fatto che si sta lì, in coppia, o in gruppo.
Che sia amore o amicizia, la cordata o il gruppo di scalata può diventare qualcosa di veramente speciale. Sotto la solita falesia di casa, esplorando nuove falesie sconosciute ognuna col suo panorama, la sua ambientazione e la sua atmosfera, o che sia a quattrocento metri di profondità nelle viscere della terra, come nei migliori racconti di Jules Verne, o sul tetto d'Europa, come dei piccoli Bonatti, è lo stesso. È l’avventura, il mettersi in gioco, il rischio anche, il rapporto con la paura e col controllo di sé e dei propri limiti, e la condivisione.

Si può andare da soli anche. C’è chi lo fa. Io ho provato. Ma non è la stessa cosa. C’è un altro fascino e un’altra bellezza, ma cambia proprio tutto. E non ho sufficiente esperienza per poterne parlare.

Con i compagni giusti si diventa un po’ famiglia, compagni di arrampicata, di scalata, di grotte, di roccia, di vino e di birre, di cibo di tenda e di falò, e piano piano di vita. Grande famiglia che costantemente contribuisce al buonumore e all’equilibrio psico-fisico, in una vita che è già complicata di per sé, e in una società e in uno Stato che fanno di tutto, a volte, per destabilizzarci e in un mondo che va in tutt’altra direzione rispetto a quella che noi (sognatori delle falesie e delle alte quote) vorremmo, schiacciando e annullando l’individuo in nome di un eterno progresso economico e antisociale. Un progresso-scorsoio, come di recente lo ha definito Andrea Zanzotto, poeta veneto che hanno citato nella rivista “Alto-Rilievo / voci di montagna”: <<un progresso che, come il nodo, si strozza per realizzarsi>>. Mi è piaciuta molto questa definizione.

E strozza noi. Che ci denaturalizziamo sempre più, in virtù di una nuova natura che si sta via via sempre più delineando.

A volte i problemi della vita, del momento storico che attraversa il mondo o i tuoi personali, te li porti anche in parete, e si vede subito che in quel periodo lì c’è qualcosa che ti blocca. Perché ti blocca anche in verticale, subito. È questione di allenamento, ma è ovviamente anche tanto questione di testa, di presenza.

Altre volte ti spronano invece, i problemi. Si arrampica sul proprio malessere e si arrampica meglio. Dai le spalle al resto del mondo e non ci pensi più. È uno sfogo. Una via di fuga dalla quotidianità. E presa dopo presa ti sei dimenticato di tutto il resto e sei semplicemente lì, concentrato sul movimento e sull’equilibrio, sul piede che deve essere delicato e sulla presa, che devi essere sicuro che sia proprio lei quella giusta. Guai a tentennare. Sprechi energie preziose.

L’arrampicata è uno sport per pigri, diceva Antonio, uno dei miei maestri. Perché devi trovare il modo per utilizzare il minor dispendio di energie possibile per arrivare esattamente lì dove vuoi arrivare. È un gioco di leve e di equilibri. E sicuramente, poi, anche di forza e resistenza, quindi prestazione fisica e duro e costante allenamento.

Seppur senza arrivare chissà dove, posso dire che l’arrampicata è stata la relazione più lunga di tutta la mia vita! E mi ha insegnato, più di ogni altra cosa, a ricominciare. E per quanto so che capiterà ancora di allontanarmene, poi alla fine il cuore torna sempre là.

Amo il senso di libertà che provo quando sono in parete. Libertà del corpo e dei pensieri. Il corpo è libero di sperimentare movimenti posizioni ed equilibri che mai in nessun’altra situazione potrebbe sperimentare, e la mente è libera di liberarsi da ogni pensiero. Amo la gestione del respiro che è necessaria per tutto questo. Amo, forse, anche i momenti in cui invece mi prende a male e decido di scendere. Perché amo ascoltarmi e saper decidere se in quel momento “non è cosa”. Amo la sintonia che si crea con chi è lì, e il senso di leggerezza. Amo la roccia. Mi è sempre piaciuta. La amo al tatto. All’odore. Alla vista. Amo la storia geologica che c’è dietro ogni luogo e la possibilità di prevederne, almeno un minimo, l’evoluzione futura. Amo la sorpresa, la scoperta, l’esplorazione. Amo la soddisfazione di quando chiudi una via. Di quando superi la paura. Amo il confronto con la paura. La sfida. L’obiettivo. Lo stupore. La bellezza. La meraviglia. Il gioco. Il tornare bambini. Il poter sognare. Il poter viaggiare, col corpo e con la mente.
Amo l’idea dell’arrampicata. Ne amo il pensiero. Ne amo l’illusione. Ne amo la realizzazione. Ne amo il ricordo, quando ne sono lontana.

Al momento, un piccolo obiettivo c’è. Ma è meglio se non dico niente, per scaramanzia! E vediamo che succede…

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CONDIVISIONE DI BENESSERE / di Roberto Befanile “libertine”.

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La colonna sonora ideale in montagna / di Lorenza Ercolino.